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facciata chiesa di san gemine (duomo)Il Duomo di San Gemini

E’ la chiesa principale della Parrocchia, nota anche come “Duomo”, in quanto in tempi remoti fu la Cattedrale della Diocesi di Carsulae. E’ dedicata a San Gemine, monaco siriano dell’VIII sec. che è anche il santo patrono della cittadina.

Notizie storiche

Il vescovo di Terni, successivamente all’Editto di Costantino, fece erigere non solo il battistero diocesano di S. Giovanni Battista, ma anche una chiesa al suo predecessore, opera quest’ultima, che non poté completare.

La chiesa fu consacrata dal suo successore San Siro e dedicata ai SS. Procolo e Vollusiano, sembra sorgesse proprio dove oggi è sita la chiesa di S. Gemine.[1]

Seguirono secoli di distruzioni barbariche e di calamità naturali, tanto che nel VIII secolo la condizione di Casvento fu così allarmante che Foroaldo II, Duca di Spoleto, per porre un rimedio, chiamò nel castello i monaci benedettini, per i quali, nell’anno 730, costruì un monastero a fianco alla cattedrale.

I Monaci si occuparono di organizzare le scuole, corsi di indirizzo professionale ed agricolo e di assistere spiritualmente e moralmente la popolazione. Purtroppo arrivò il tempo della terribile distruzione per mano dei Saraceni, dopo la quale la chiesa e il monastero furono ristabiliti e nell’890 i monaci furono richiamati al loro servizio dai vescovi diocesani e dagli Arcipreti di San Giovanni, considerando la loro condotta santa, devota e la loro utilissima cura delle anime.

La tradizione agiografica racconta che il monaco benedettino Gemine, originario della Siria, giunse, mandato da Dio, nella città di Casvento, dove avrebbe dovuto dare conforto a quella popolazione che tanto aveva sofferto.

Gemine si guadagnò velocemente la fiducia dei Casventini per la sua simpatia, affabilità, capacità di risolvere sia problemi materiali che spirituali, organizzò, le prime scuole per giovani ed adulti, corsi di cultura agraria, riunì delle squadre di uomini per la bonifica del territorio ritornato selvaggio e, non meno importante, nel 806 fece erigere un grande edificio come centro di studio, l’annesso oratorio fu chiamato San Nicolò[2]. Nel 815 ricevette un nuovo incarico da Dio, andare via da Casvento per trasferirsi a Ferento, ed egli ubbidì.

Il 9 ottobre dell’815 morì a Ferento, la notizia giunse ai Casventini, che fecero partire una delegazione di monaci, per riportare nel loro paese la salma del santo. La loro richiesta non fu accordata subito, ma solo dopo l’invasione saracena, quando i Casventini per ritrovare forza e conforto nella fede dedicarono al Santo Gemine la città e la Cattedrale, nell’885, con l’aiuto del Duca Guido di Spoleto, la salma fu traslata e celata nell’odierna chiesa di San Gemine.

La cattedrale dedicata a Santo Gemine suggerisce nella facciata i diversi interventi di restauro e trasformazioni.

Il primo dato da considerare sono i conci di grandi dimensioni[3], sistemati come zoccolo, che occupano tutta la parte destra della facciata e riappaiono sulla fiancata sinistra.

La loro quantità e regolarità ha indotto a supporre l’esistenza, nel medesimo luogo e in epoca romana, di un edificio molto importante.

La facciata probabilmente fu eretta su questi conci, è arricchita al centro da un bel portale quattrocentesco, sovrastato da una grande bifora gotica. Questi due elementi sono in simmetria tra di loro, simmetria spezzata però, da un arco acuto di scarico interrotto dalla finestra tardo trecentesca.

L’interno contrasta fortemente con la sobrietà della facciata per il suo neobarocco, del quale fu rivestito tra i 1817 e il 1847 dall’architetto Matteo Livoni di Roma dietro anche, secondo la tradizione, un progetto e i consigli del Canova.

Pur avendo all’interno questa veste ottocentesca, in planimetria è ancora visibile lo schema gotico soprattutto per la forma dell’abside, che all’esterno mantiene ancora l’originaria forma poligonale, col finestrone sormontato da un occhio, il quale rispondeva all’economia di luce caratteristica del gusto e della cultura dell’ultimo Medioevo.

La chiesa conserva sull’altare maggiore un crocifisso ligneo del XV secolo, nel coro quattro tele ascrivibili al primo seicento: “San Giovanni Evangelista” siglata M.F. e datata 1612, “Martirio di San Sebastiano”; “Madonna col Bambino e santo Vescovo”, “San Matteo Evangelista”.

Nel 1775, durante l’apertura di una porta di comunicazione tra l’abside e la sagrestia, fu scoperto un vano a forma di cappella con due successive arcate e con un’immagine del Santo Gemine, che andò distrutta, e sotto di essa un’urna di peperino[4] contenente le reliquie di San Gemine, con la scritta sul coperchio: + Hic req(u)iescit corpu(s): Beatissimi Gemini conf(es)s(oris).

Si riporta la descrizione dell’urna di Santo Gemine fatta da fra Antonio Cappuccino (Milj) in “Vite de Santi Gemine”[5]:

“…tegola pur grande di terra cotta, apparve una tavola di marmo bianco, che aveva verso l’estremità dell’uno dei due lati un piccolo anello di ferro, ma talmente corroso dalla ruggine, che appena forzato alcun poco col dito medio della mano sterpossi.

Serviva la detta tavola, essendo di figura bislunga, di coperchio ad urna di pietra, che chiamasi Piperino, della lunghezza della sua superficie di palmi due, e oncie due, e della larghezza di palmi uno, e oncie tre, e la qual tavola rimaneva incastrata nella detta urna al di dentro, e per di fuori unita nelle commessure all’intorno con il piombo, nel piano di cui con lettere formata a questa foggia vi si leggeva la seguente Iscrizione:

+ HIC REQUESCIT CORPV+
BEATISIMI GEMINI C F S ;”.

[1] La Cattedrale, ossia la chiesa principale di Carsoli, oggi chiesa di San Gemine, si trovava fuori le mura non solo di Carsoli, ma anche di Casvento, secondo il Milj, per due motivi: perché qui abitava l’Augure, il principale sacerdote di Carsoli, e perché la sua posizione risultava comoda per gli spostamenti del vescovo.

[2] L’ipotesi della chiesa di San Nicolò per volontà di Santo Gemine è un ipotesi del Lubin in “De Abbatibus italianis” p 160, col. 2.

[3] I conci probabilmente sono materiali di spoglio

[4] Secondo il giudizio degli archeologi, l’urna non è di peperino ma di nenfro, è un’urna cineraria etrusca, questo tipo si ritrova nell’Etruria meridionale e nel Viterbese.

[5] Fr. Antonio c. “Vite de’ Santi Gemine Monaco e confessore” Macerata, 1784, p. 105.

Santo Gemine

san gemine patrono di sangemini

Siria sec. VIII – Ferento (Viterbo), 9 ottobre 815

S. Gregorio Magno, narra di un’eremita Isacco venuto dalla Siria e morto a Spoleto nel 550; questo per spiegare che era frequente che eremiti pellegrini, provenienti dall’Oriente, finissero i loro giorni nell’Italia Centrale.

Così potrebbe essere stato per Gemine, ma in seguito alla grande venerazione popolare che gli venne tributata, un anonimo autore, riempì i vuoti con un racconto leggendario in parte reale, in parte rifacendosi ad analoghe biografie.

Esso afferma che Gemine nacque in Siria nella seconda metà del secolo VIII, dal padre pagano Milisieno e da Belliade; si convertì al Cristianesimo e dopo aver esercitato, come il padre, il  mestiere delle armi, decise di dedicarsi in Siria, alla vita eremitica, rinunciando ad una sicura  carriera nella pubblica amministrazione. Come i pellegrini eremitici di allora, prese a girare per vari luoghi, finché si trasferì definitivamente in Italia. Sbarcato sulle coste marchigiane, dimorò per un certo periodo nella zona di Fano (nel monastero di San Paterniano); poi si addentrò  all’interno, giungendo verso Spoleto, ed infine arrivò nell’umbra Casventum, in provincia di Terni,
qui condusse vita eremitica e penitente, suscitando la grande ammirazione del popolo che a lui accorreva per i suoi consigli.

Questa città venne poi distrutta da un attacco saraceno e quando fu ricostruita, cambiò il nome in San Gemini, in onore del santo anacoreta poi eletto a suo patrono; oggi è notoriamente conosciuta per le sue sorgenti di acqua minerale.

Negli ultimi anni della sua vita Gemine, entrò in un monastero benedettino, morì a Ferento, cittadina etrusca in provincia di Viterbo, il 9 ottobre 815, a 45 anni.

E’ venerato oltre che a San Gemini, anche a Narni e Viterbo, dove sono conservate alcune sue reliquie.

L’Organo “Morettini”

organo morettini sangemini

L’Organo presente nella cantoria della chiesa di San Gemine è stato costruito dall’organaro di Perugia Angelo Morettini nel 1851 (precisamente il “18 maggio 1851”, come testimonia l’iscrizione nello sportello a sinistra della console).

E’ uno strumento a trasmissione integralmente meccanica. Si compone di un’unica tastiera di 52 note, di 5 ottave (Do1-Sol5) con prima ottava scavezza e suddivisione Bassi-Soprani tra il Re3-Mib3. La pedaliera dritta è di 18 note (Do1-La2) con prima ottava scavezza, costantemente unita al manuale.
La cassa, di sobria fattura, color noce scuro, incornicia sul lato frontale, la mostra, composta da 23 canne di principale con bocche a scudo disposte a cuspide con ali.

Questa è la disposizione fonica dello strumento in base alla posizione dei pomelli nelle due colonne della registriera:

Leva del “Tiratutti”

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* Pomelli uniti

Foto: Stefano Ferri

Angelo Morettini (1799 – 1877)

Il capostipite Angelo Morettini nacque a Perugia nel 1799 da una famiglia non abbiente, ma sin da piccolo mostrò un interesse particolare per la meccanica. Nel 1819 fu mandato, dal padre, a bottega dell’organaro marchigiano Sebastiano di Montecarotto. Costruì vari organi con il suo maestro ma i primi organi firmati da lui provengono dal suo laboratorio di Perugia aperto nel 1823 in cui, nello stesso anno, nacque il suo primo organo, collocato nella chiesa di San Nicolò a Cantiano, che rimase uno dei suoi migliori esemplari. Divenuto famoso costruì in poco più di cinquant’anni oltre 200 organi presenti in maggior numero in Umbria, nelle Marche e nel Lazio.

Al suo fianco, negli ultimi tempi, lavorò il figlio Nicola. Nel 1877 padre e figlio fecero l’opera più importante e laboriosa: cioè la costruzione dell’organo per la Chiesa di Sant’Agostino di Santiago del Cile. Questo organo accuratamente smontato venne imbarcato a Civitavecchia su di un mercantile. Pochi giorni dopo questa grossa commissione Angelo Morettini spirò lasciando l’eredità di una tradizione che perdurerà fino agli anni trenta del secolo successivo.

Testi e ricerca storiografica a cura del Dott. Paolo Petroni

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